lunedì 28 febbraio 2011
LO SPAZIO DEL SACRO - Galleria Civica di Modena - Palazzo Santa Margherita Palazzina dei Giardini
Richard Long, Arizona Circle, 1987, 83 pietre, Ø cm 240, courtesy The Panza Collection, veduta dell'allestimento della mostra Lo spazio del sacro, Palazzina dei Giardini, 2010, Modena, Foto: © Carlo Fei, by SIAE 2010
La Galleria Civica di Modena ospita fino al 6 marzo la mostra Lo spazio del sacro, curata dal direttore del Museo Marco Pierini, che ha reso possibile un’esposizione attraverso la quale esperire il sacro nello spazio in cui l’opera d’arte è inserita.
Ogni ambiente della Galleria accoglie una singola opera che con esso interagisce per determinare una specifica e assolutamente individuale accezione del sacro.
Lo spazio in cui l’installazione si trova è il luogo fisico, intellettuale e interiore in cui approcciarsi alla realizzazione artistica, per sondarla empaticamente e procedere alla scoperta di ciò che sa suscitare, quindi comunicare, ai sensi del fruitore a cui è richiesta una visita attiva.
Spiritualità e sacralità dunque, ma non intese come religione, bensì come il luogo in cui l’anima stessa può ritrovarsi e sperimentare in solitudine i propri moti, innescati dall’invito della stessa opera a entrare silenziosamente in contatto con essa.
Dalle origini della storia dell’arte contemporanea (1850 ca.) fino a quella coeva, il sacro in ambito artistico non viene esplicitato, reso in maniera palese, veicolato mediante la produzione di una specifica iconografia religiosa; quindi non si rivela allo spettatore nelle proprie forme convenzionali, bensì attraverso morfologie talvolta inaspettate, in cui diviene rivelatore dello spirito l’eloquenza che ha di sé uno stesso materiale, un dato stilema, un colore, una luce, un pieno o un vuoto.
Sono i sensi di chi osserva con partecipazione il manufatto artistico a percepirne il senso e così riempire lo spazio realmente esistente tra l’opera e se stesso.
Si ha una trasposizione artistica dell’immanenza in una spiritualità orizzontale, in cui il significato etimologico della parola sacro: sacer, separato, non intende approfondire il proprio rapporto con le molteplici valenze culturali legate a quello della parola religione: re-ligare, tenere insieme.
La mostra, infatti, non si sofferma sulle criticità degli equilibri politici e sociali esistenti tra le cinque religioni, come attesta una delle opere più significative della mostra: la configurazione plastica di Vittorio Corsini God save the people, scultura che esprime la speranza in una possibile convivenza tra le cinque grandi religioni, composta dalla sovrapposizione di cinque planimetrie di altrettanti edifici sacri che è un’astrazione dello spazio fisico in cui l’uomo abita quotidianamente il transeunte dell’edificio religioso, così come abita la propria casa.
Le opere d’arte fungono da soglia, da varcare o intesa come limite inviolabile, a seconda del sentire degli artisti: uno spazio chiuso nella visione di Richard Long o uno spazio aperto in quella di Vittorio Corsini. La collettiva presenta opere provenienti da istituzioni pubbliche e collezioni private italiane e straniere di alcuni fra gli artisti della scena contemporanea internazionale che hanno maggiormente riflettuto sul tema del sacro: Adel Abdessemed, Giovanni Anselmo, Kader Attia, Paolo Cavinato, Chen Zhen, Vittorio Corsini, Josep Ginestar, Anish Kapoor, Richard Long, Roberto Paci Dalò, Jaume Plensa, Wael Shawky.
domenica 27 febbraio 2011
Assertività…..
sabato 26 febbraio 2011
Bacarisse
A
Salvador Bacarisse
(1898-1963)
- Numero 2 nei "Dedicati" -
-
"BACARISSE"
Soleggiati arpeggi
per marosi di sole e bagliori
d'un'estate incantata e perduta,
glicini dorati
alla volta della soglia
ove lei, bella,
siede nel meriggio
della placida calura
che in afe tremule annega.
Corde che al vento
innalzano accordi,
incendi d'armonia
soffici di speranza mia.
E frammentati idillii
d'un'aria assolata
in quiete e musica avvolta
che al cuor risplendono ancora
fin dove e oltre il sogno spera,
eppur -
poi che di ferite avvolto -
quasi più...
neppur sognare
osa.
A Salvador Bacarisse, musicista spagnolo.
Alla sua splendida "Romanza".
Nota: questa poesia fa parte di un progetto
di "Dedicati" intitolato "Identità sepolte";
sono poesie che negli anni ho dedicato a personaggi
più o meno noti
e che ora raccolgo, in risposta alla totale insofferenza
e al totale oblio cui stanno viaggiando le singole ricchezze
e peculiarità umane.
Di queste poesie farò un volume.
A voi piacendo ne posterò quì alcune, al di là dell'ordine
prettamente alfabetico dell'opera.
Nel mio sito ho postato il primo dei dedicati,
beneficiario il grande direttore d'orchestra svizzero
Ernest Ansermét.
Vi invito a visitare il mio sito
www.webalice.it/barlow alla pagina "Dedicati",
nella quale troverete il programma del progetto
e l'introduzione con la motivazione principale dell'opera.
Introduzione che comincia così:
"Vi siete accorti che ormai quasi nessuno muore più?
Ricordo che quando morì William Holden, la Rai..."
Buona lettura e buona giornata.
... E se nel mio cammino dovessi incontrare
qualche altro "dedicante"...
(Ermanno Bartoli - Barlow)
venerdì 25 febbraio 2011
Jumeleizhi–Recovering the Ancestral
Dal XVI secolo ad oggi i territori degli indios (indiani d’America) sono stati oggetto di furto e distruzione ad opera dei colonizzatori. Fra gli abitanti di queste terre ci sono i Tairona, popolazione di Santa Marta, zona montuosa e innevata nella Sierra Nevada, costretta a migrare con l’arrivo dei conquistadores: gli indigeni Kogui, Wiwa, Arhuaco (Ijka, Ifca) e Cancuamo sono i loro probabili discendenti. Il progetto “Jumeleizhi - Recovering the Ancestral” è toccante. Sotto la guida dei Tairona Mamos, massime autorità spirituali della Sierra Nevada, i discendenti delle popolazioni indigene stanno cercando di riequilibrare il passato e i torti subiti: in senso ecosistemico e simbolico. Non si tratta di punire “l’uomo bianco” (the Yungers Brothers, come ci chiamano), quanto prendere coscienza che è necessario per il “bene” di entrambi ristabilire un equilibrio spezzato. Il discorso di Mama Pedro Juan riportato sul sito ne è una vivida testimonianza. In quest’ottica i promotori di Jumeleizhi lavorano congiuntamente per restituire alle popolazioni autoctone oggetti di arte spesso sacri saccheggiati e sparsi in musei, gallerie e collezioni private. Grazie a questo lavoro alcuni oggetti sacri sono stati restituiti ai Mamos a Santa Marta proprio a febbraio: l’evento è stato celebrato con una cerimonia, mentre fra il 19 e il 21 febbraio Cluj (Romania) una prima expo’ di E-Tribal Art è stata realizzata con l’obiettivo di raccontare la storia dei Tairona. Partecipare a Jumeleizhi è possibile attivandosi in molti modi attraverso la piattaforma: trovate qui tutte le principali indicazioni per avviare la collaborazione.
penelope.di.pixel
giovedì 24 febbraio 2011
L’importanza di fare rete
L’etnologo J.A.Barnes afferma che una rete sociale è un insieme di punti congiunti da linee;i punti rappresentano persone e anche gruppi e le linee indicano quali persone siano in relazione con ogni altra.In questa sintetica definizione troviamo gli elementi caratteristici e necessari di ogni rete sociale:i punti (persone e gruppi)e le linee(relazioni).
L’esistenza delle persone è un incessante processo di costruzione,elaborazione e rescissione di relazioni con altri soggetti. Molti studiosi contemporanei riconoscono l’indubbia importanza dell’aspetto relazionale nella vita degli uomini.
Per un individuo la relazione sociale riveste un’importanza vitale,in quanto la sua comprensione non può prescindere dall’analisi delle sue relazioni più importanti,e che il processo di aiuto ad una persona in difficoltà dovrebbe coinvolgere i soggetti significativi del suo ambiente.
Quest’ ultima deduzione,che è una conquista dei teorici sistemici costituisce il fondamento dell’intervento sociale secondo un’ottica di rete.
In riferimento al lavoro di rete si possono distinguere:
• Reti primarie(informali):gruppi i cui componenti hanno una storia in comune. Queste reti nascono spontaneamente e non possono essere artificialmente costituite,possono essere libere(con amici,colleghi,ecc)oppure obbligate(con familiari e parenti).Entrambi sono di natura affettiva,protettiva e di sostegno.
• Reti secondarie formali:hanno una precisa struttura,svolgono precise funzioni o servizi e sono caratterizzate da scambi fondati sul denaro o sul diritto(servizi socio-sanitari pubblici e privati).
• Reti secondarie informali:sono fondate sull’iniziativa dei loro membri e si sostanziano in scambi di servizi poco formalizzati.
Andando in fondo a vedere di che pasta è fatta concretamente la valutazione che crea il problema sociale si può notare che essa mette a fuoco la combinazione di due variabili,il rapporto tra compito e persona in quell’ideale serrata interazione che è il fronteggiamento.
La maggior parte dei compiti che la persona deve fronteggiare sono costituiti o derivati da relazioni interpersonali,ogni compito sollecita una pluralità di persone considerate in rete(coping relazionale).
Dr.ssa Concetta Riccio Assistente sociale specialista
mercoledì 23 febbraio 2011
In piazza Duomo, la montagna di sale di Mimmo Paladino
Nell’inverno 2008-2009 Letizia Moratti rimase senza sale perché l’aveva prestato a Chiamparino. A partire dal 21 marzo 2011 di sale a Milano ce ne sarà un’intera montagna, alta 20 metri e larga 30. Questa la trovata di Mimmo Paladino, per celebrare l’Unità d’Italia (e la sua prossima personale a Palazzo Reale), trasportando sale da Sud a Nord.
Ma non si tratta di una vera novità, la Montagna di Sale, da cui spuntavano sculture nere di animali e uomini, venne presentata per la prima volta nel 1995 a Napoli, in Piazza Plebiscito (nella foto sopra). A Milano troverà collocazione tra la statua di Vittorio Emanuele II e il Duomo. Sopra ci saranno trenta o più sculture, tre cavalli e alcuni pezzi di bronzo.
Lorenzo Mazza
martedì 22 febbraio 2011
lunedì 21 febbraio 2011
La contessa di Castiglione, femme fatale del Risorgimento
Tra le donne del Risorgimento la contessa di Castiglione fu certamente la più bella, la più intrigante e chiacchierata, la personificazione della vanità femminile. Una “statua di carne”, così l’aveva definita con una punta d’invidia la principessa di Metternich. Audace, altera e superba, di sé diceva: “è il mio carattere fiero, franco e libero che mi fa essere talvolta cruda e dura”. Mostrava con orgoglio agli ammiratori le mani seducenti e i piedi magnifici. Gli occhi di intenso verdazzurro dalle sfumature ametista, anche nel fuoco della passionalità più violenta tradivano una mente lucida e fredda.
USO' TUTTI I MEZZI - Virginia Oldoini, figlia del nobile marchese spezzino Filippo Oldoini e della fiorentina Isabella Lamporecchi, vide la luce a Firenze il 23 marzo 1837, anche se per civetteria non lo ammise mai. È passata alla storia per avere sedotto – un’astuzia del Conte di Cavour che le avrebbe detto “usate tutti i mezzi che vi pare, ma riuscite” - Napoleone III portandolo così a sostenere la causa dell’indipendenza italiana. Non aveva ancora 17 anni quando, il 9 gennaio 1854, “Nicchia” (così la chiamava Massimo d’Azeglio) divenne contessa di Castiglione, andando in sposa al conte Francesco Verasis di Castiglione Tinella e di Costigliole d’Asti, cugino di Cavour, assolutamente deciso a sposare la donna più bella d’Italia, nonostante sapesse di non essere ricambiato. Ne rimase sempre innamorato e, come tutti i mariti ingannati che si rispettino, disposto a ignorarne i tradimenti e ad assecondarne i costosi capricci, anche dopo la separazione legale, finché nel 1867 durante il corteo di nozze tra il principe Amedeo d’Aosta e la principessa Maria dal Pozzo della Cisterna, caduto da cavallo, morì travolto dalla carrozza reale.AMATA, MA ANCHE ODIATA - Virginia non amò altri che se stessa, motivo per cui il figlio Giorgio, morto di vaiolo a Madrid nel 1879, la detestava cordialmente. Dagli uomini sapeva farsi adorare quanto odiare dalle donne, prima tra tutte la spagnola Eugenia Montijno, consorte di Napoleone. Dalla amata Spezia, appena sposata si trasferì a Torino alla corte di Vittorio Emanuele di Savoia e quindi a Parigi. Dopo un esordio memorabile alle Tuileries, alla sfolgorante ventenne bastò mezz’ora d’amore con l’Imperatore cinquantenne nella stanza azzurra del Castello di Compiègne per riuscire nella “delicata” missione di Stato che le era stata affidata. Era il gennaio del 1856. Napoleone la coprì di gioielli, tra cui una collana a cinque giri di perle e si favoleggiava di un appannaggio mensile di 50mila franchi. Stabilitasi in Rue de Passy, le malelingue non si accontentarono più di soprannomi come “la bella e la bestia” e, senza mezzi termini, la battezzarono “vulva d’oro”. Dopo l’armistizio di Villafranca, nel luglio 1859, la sua stella presso Napoleone cominciò a offuscarsi a vantaggio della moglie del ministro degli esteri contessa Walewska, ma a buon conto l’imperatrice Eugenia, col pretesto di un sventato attentato all’Imperatore programmato durante un convegno tra i due amanti, ne ottenne l’espulsione dalla Francia. Nel 1862, per intercessione dell’ambasciatore Costantino Nigra, tornerà a Parigi con propositi di rivalsa, ma ormai quella partita era persa come lo fu più avanti quella con Vittorio Emanuele, seccatosi per i suoi tentennamenti e le sue eccessive pretese dopo averla ripetutamente invitata a trasferirsi a Firenze. 43 AMANTI E IL VOLTO VELATO - Caduto il Secondo Impero nel 1870, con abilità e scaltrezza continuò a tessere, tra Parigi e La Spezia, la rete delle sue amicizie influenti collezionando 43 amanti, 12 dei quali avuti contemporaneamente e sempre all’insaputa l’uno dell’altro. La venere incontrastata del bel mondo che aveva incantato per le toilette da favola, i gioielli, tra i fasti e i piaceri della mondanità, ebbe il solo grave torto di sopravvivere alla sua bellezza. Trascorse l’autunno della vita sola, nel terrore dell’indigenza, sopraffatta da cupa nevrastenia e senso di persecuzione. Dei ricordi ormai non sapeva che farsene: per non vedere la sua decadenza fisica si velava il volto, copriva gli specchi, usciva solo la notte, circondandosi di un’aura patetica di mistero. Ancora ricca, ma in crisi di liquidità, nel 1893 subì l’onta dello sfratto dal suo ammezzato di Place Vendôme occupato dal 1876. Morì a Parigi il 28 novembre 1899 in un piccolo alloggio sopra il ristorante Voisin. All’indomani del suo funerale, la polizia e Carlo Sforza per l’ambasciata italiana distrussero tutte le lettere e i documenti compromettenti riguardanti re, politici, papi e banchieri, da Napoleone III a Bismarck, Cavour, Pio IX, Rothschild. Ci restano i suoi diari. Avrebbe voluto tornare in Italia e farsi seppellire alla Spezia con i suoi gioielli (andarono invece a sconosciuti eredi con una fortuna stimata in due milioni di lire del tempo), la camicia da notte verde acqua di Compiègne e i suoi due pechinesi, Sanduga e Kasino, imbalsamati. Riposa invece, tra i grandi, al Père Lachaise.
mara bella
domenica 20 febbraio 2011
Tra mamma e neonato non metterci il dito………….
Consultazione e Consulenza,Diagnosi, Sostegno Psicologico, Crescita Personale,Psicologia clinica-Trattamento Individuo, Coppia e Famiglia,Disturbi del comportamento alimentare, (anoressia,bulimia,obesità),Riabilitazione della disabilità. Traumi,Attacchi di Panico,Ossessioni, Disturbi del Sonno, Ipocondria,Disturbi Sessuali,Ansia,Fobie,Compulsioni,Disturbi infantili.
sabato 19 febbraio 2011
Chardin : il pittore del silenzio
Il dipinto rappresentato è : " il Benedicite" 1740
mara bella
venerdì 18 febbraio 2011
“The Cow”, un’animazione di Alexander Petrov
Oggi voglio proporvi un corto di Alexander Petrov, artista dell’animazione nato nel 1957 in Russia. Vi accorgerete subito che si tratta di un lavoro un po’ vintage, è stato realizzato nel 1989 e da allora sono cambiati gli strumenti e le tecniche a disposizione degli animatori.
In particolare, la tecnica di questo The Cow, è la fusione della pittura di matrice romantico-realista, con una concezione intima e riflessiva dell’esistenza. Sogni, paure, sentimenti e introspezioni, prendono la consistenza, il colore e le tinte fosche di oggetti reali.
D’altronde, la storia The Cow, era stata scritta da Andrei Platonov, novellista e drammaturgo di matrice esistenzialista.
Nabis
mercoledì 16 febbraio 2011
Kehinde Wiley
Kehinde Wiley è un giovane artista nato a Los Angeles nel 1977, vive e lavora a New York. Il suo modo di dipingere è un frullato di arte del passato (dal Rinascimento al Barocco) e riscatto sociale.
I suoi modelli sono ragazzi “presi” dalla strada, quella dura di periferia, l’artista di solito li invita a scegliere un dipinto dell’arte classica, poi li mette in posa e li fotografa, in un secondo tempo dipinge la figura con dietro uno sfondo che richiama i personaggi di potere del passato. Nascono così delle opere “nuove” cariche di forza ed “eroismo” ma anche vivaci ed ironiche.
Anche artisti dell’hip-hop americano hanno voluto entrare a far parte della galleria di personaggi rappresentati dall’artista, ma sinceramente preferisco le tele dove ad essere ritratti sono le persone comuni, dando la possibilità di “indossare” vesti diverse da quelle di tutti i giorni.
By Federica
domenica 13 febbraio 2011
Il corpo umano e…………..
venerdì 11 febbraio 2011
Le illustrazioni “realistiche” di Aaron Baggio
Aaron Baggio è un giovane art director canadese, le sue opere si collocano tra astrazione e realismo.Per creare i suoi lavori utilizza inchiostro che viene stratificato per comporre tessiture granulose e toni più scuri dando così profondità e ombreggiatura, in alcuni casi viene dato un tocco di acquerello o acrilico, non disdegnando l’aiuto digitale di Adobe Photoshop. Ha una grande visione artistica ed un occhio attento ai dettagli, i protagonisti delle sue opere sono musicisti ( Ben Harper, Bob Dylan, Eddie Vedder, solo per citarne alcuni) che risultano freschi ed originali, ma anche nudi, paesaggi e caricature fantastiche di grande finezza e padronanza tecnica.
by Federica
mercoledì 9 febbraio 2011
Arte o spazzatura?
Spesso torno a chiedermi quale sia il confine tra arte e non-arte. Il parametro della bellezza o dell’interesse non funziona sempre. Se pensiamo che spesso molti pezzi abbandonati, assemblaggi spontanei o configurazioni casuali di oggetti nello spazio sono belli e interessanti dal punto di vista artistico.
Così torno spesso a darmi una risposta, provvisoria e incompleta, ma che comunque colma momentaneamente il mio dubbio. L’intenzionalità del creatore, dell’artista, di colui che anche solo nomina o evidenzia quella porzione di realtà per renderla più visibile e comunicabile. Questo è un discrimine che rende qualcosa un’opera d’arte. Nel senso la rende eventualmente interessante per l’opinione pubblica e commerciabile per il mercato. Ma niente vieta che la bellezza di un ferro arrugginito abbandonato in un campo sferzato dal vento abbia valore artistico, al di là dell’autorialità.
Questa lunga premessa mi serve per introdurvi ad un singolare episodio avvenuto due giorni fa a Padova. All’interno di Ram – Ricerche artistiche Metropolitane, per Artisti al Muro, alcuni autori erano stati chiamati a presentare installazioni nello spazio pubblico. Isabella Facco, 53enne padovana, ha proposto il suo Legg-io, un’installazione composta da un mobile e alcuni oggetti.
Nottetempo però gli addetti al prelievo della spazzatura l’hanno caricata come ‘rifiuto speciale’ e portata via, per destinarla al macero. Quando l’artista se ne è accorta ha subito riportato sul luogo una copia dell’opera, questa volta ponendola su un piccolo piedistallo e inserendo un’etichetta. Come dire, l’arte viene riconosciuta come tale solo se indicata, solo se ‘elevata’ al di sopra delle cose, su un piedistallo… Alla fine della vicenda, cosa rimane? La Facco si sarà fatta un bel po’ di pubblicità, ma, mi chiedo, non si pone il problema della comunicabilità del suo lavoro artistico?
Lorenzo Mazza
lunedì 7 febbraio 2011
La morte felice
La morte felice
“ Procuratevi una bottiglia si Saint-Emilion millesimato, spogliatevi di tutti i pregiudizi (letteralmente: toglietevi di dosso tutti i vestiti) e restate cosi, nudi come siete nati e come morirete, sotto il sole zenitale di una torrida estate. Il piacere formicolerà su tutta la vostra pelle indifesa, una sensazione indistinguibile di gioia e dolore vi inghiottirà.
Ecco, siete diventati Patrice Mersault, siete a un passo da una morte felice.”
Flavio Santi
sabato 5 febbraio 2011
Gli occhi dell’anima
Nancy Jernigan, oggi ventiquattrenne, perse improvvisamente la vista a tre anni. Non è completamente cieca, ma viene considerata “legalmente cieca”.
Oggi ha riscoperto una passione che aveva fin da piccola, la pittura. Per scegliere e trovare i pennelli da usare, li tocca con le labbra, per capire di che spessore è la setola, ed a volte assaggia con la lingua il colore, per capire di che tonaità cromatica si tratta.
Dipingere è diventata così la sua pratica quotidiana per vedere ciò che non potrebbe vedere. Tutto comincia con una stampa, una fotografia, che cerca di visualizzare grazie all’uso di una lente di ingrandimento.
Le piacciono i paesaggi e, una volta che ha messo i suoi colori in ordine, comincia un viaggio nella sua mente, per mettere su tela delle suggestioni che scaturiscono dalla realtà, ma che sono completate dalla sua immaginazione.
Per lei dipingere è un’attività terapeutica, non cerca soldi, ma vuole confrontarsi coi limiti che Madre Natura gli ha imposto. Qualche tempo fa ha dipinto un murale di grandi dimensioni vicino al campo di calcio dove gioca suo figlio.
Via KLTV