Giuseppe Bergomi
"Muse inquietanti. Ritratte da uomini inquieti" la collettiva a curata di Chiara Gatti per la Nuova Galleria Morone di Milano, ritratti femminili eseguiti da 9 autori internazionali di diverse generazioni: Sylwester Ambroziak, Georg Baselitz, Giuseppe Bergomi , Agenore Fabbri, Lucian Freud, Domenico Grenci, Marco Perroni, Karl Plattner e Giovanni Sesia. Le opere, messe a confronto diretto con un’incisione di Rembrandt, acquaforte di un nudo femminile , indagano sul rapporto tra artista e modella.
"Madri, mogli, muse, amanti. Nel panorama della storia dell’arte, molti sono i ruoli rivestiti delle donne nelle immagini che ne hanno svelato la storia o rubato un pezzetto di anima. Ma lo sguardo puntato su di loro è stato sempre naturalmente duplice. Da un lato, la prospettiva di donne che hanno raccontato altre donne. Da Artemisia Gentileschi a Käthe Kollwitz, sino a Louise Bourgois, per fare solo qualche esempio. Dall’altro lato, ci sono stati invece uomini che hanno indagato l’universo femminile per farsene interpreti, oppure perché si sentivano protagonisti della vita delle loro donne, avendo avuto l’opportunità di conoscerle intimamente.
Basti pensare al grande Rembrandt (1606-1669) che di donne – fra la moglie, la balia e la domestica – ne ha amate tante e altrettante ne ha ritratte. Oppure a Egon Schiele che, per colpa proprio delle donne, adolescenti disinibite come la sorella Gerti, la prima compagna Wally o la moglie Edith, finì addirittura in prigione, accusato di adescamento. Povero Schiele, colpevole solo di aver descritto, con segni troppo crudi, l’angoscia della vita, appesa disperatamente a un corpo indifeso.
Tanti sono i casi di dipendenza di una donna dal suo interprete al cavalletto, a cui sembra essersi affidata senza veli; ma si tratta spesso di situazioni da leggere al contrario, come forme di dipendenza dell’artista stesso dal suo modello. Cézanne ritrasse la moglie Hortense infinite volte, infliggendole lunghe ed estenuanti sedute di posa. Lei quasi lo detestava! Lui, viceversa, vedeva rispecchiato in lei il suo amore per la natura delle cose. Non poteva fare a meno di osservarla, studiarla, ritrarla, per una questione squisitamente egoistica.
Lette in quest’ottica, la madre, la moglie, la musa, l’amante diventano specchi dell’animo dell’autore che su di loro, nelle loro pose inquiete e contorte, nei tratti di volti spigolosi come aculei, riversano una parte di sé, si mettono a nudo, rivelano se stessi.
Al di là dei luoghi comuni, dei cliché, degli stereotipi che vedono nelle donne “ritratte” i temi classici della fragilità, della dolcezza, della seduzione messe in mostra, ecco allora una mostra che parla stranamente di uomini, attraverso le loro donne. Una mostra di “autoritratti” allo specchio, animata da nove artisti del Novecento, fra maestri storici e giovani emergenti, messi idealmente in dialogo con un capolavoro inciso di Rembrandt, uno dei suoi celebri nudi inghiottiti dall’ombra.
Agenore Fabbri (1911-1998) trasferì nelle sue femmine dagli occhi pesti e i corpi squartati il dramma della guerra, patito in prima linea sul fronte jugoslavo, prima di unirsi alla Resistenza e approdare a Milano nel ’45 dove abitò per mesi fra le panchine della Stazione Centrale e gli interni scassati di una Balilla. Lucian Freud (1922-2011) puntò il proprio obiettivo sull’individuo inteso come pura fisicità, immortalando gli aspetti più labili del corpo, ossessionato per la sua decadenza. Da qui le figure fuori scala, fortemente scorciate, in posizione supina, contorta, sdraiate su pavimenti duri e sporchi. Arrendevoli, osceni nelle loro nudità imbarazzanti, i suoi personaggi alludevano alla sua stessa difficoltà di comunicazione e alla solitudine vissuta all’interno di una coppia.
Un lascito ideale e un sentimento tosto dell’esistenza, condivisi da altri autori intensi come Plattner (1919-1986) o Baselitz (classe 1938) e raccolto anche da artisti contemporanei come Giovanni Sesia (classe 1955) che unisce pittura e fotografia in opere simili a diari di viaggio, scritti sulla pelle nuda delle sue figure; o come lo scultore Giuseppe Bergomi (classe 1953) abilissimo nell’affidare alla terra cruda nudi di femmine volitive, spigolose come quelle di Schiele, anime di un suo mondo raggelato nell’attesa.
Fra i più giovani, Domenico Grenci (classe 1981) è autore di volti acquosi, tenui come la memoria e la dimenticanza; Marco Perroni (classe 1970) è interprete di un corpo spezzato e molesto, sinonimo di affanni interiori espressi a suon di zampate sulla tela; e infine il polacco Sylvester Ambroziak (classe 1964) sembra scolpire le sue forme aspre nel legno con l’accetta, per comunicare la rabbia di creature a caccia di una identità perduta." (testo dal comunicato stampa)
Muse inquietanti. Ritratte da uomini inquieti
Nuova Galleria Morone - Milanofino al 30 aprile 2014
fonte : www.nuovagalleriamorone.com/
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