giovedì 17 novembre 2011

LETTERE DAL MANICOMIO



Nei trent’anni d’internamento Camille Claudel scrisse numerose lettere, in massima parte indirizzate al fratello Paul ed alla madre. In esse chiedeva sempre di tornare a casa.
Questa artista ha, in realtà, pagato il prezzo del suo tempo: lo scandalo di essere una donna libera e creativa.

“Mi si rimprovera (efferato crimine!) di aver vissuto sola, di trascorrere la mia vita con i gatti, di avere manie di persecuzione”.

“Essendo l’immaginazione, il sentimento, il nuovo, l’imprevisto, che nascono da uno spirito evoluto, incomprensibili per loro, cervelli ottusi, eternamente chiusi alla luce, occorre che qualcuno fornisca loro un’illuminazione… Qualcuno, almeno, potrebbe riconoscere il merito di originalità e dare qualche compenso alla povera donna che hanno spogliato del suo genio: no! Un manicomio! Nemmeno il diritto ad avere una casa!… E’ lo sfruttamento della donna, l’annientamento dell’artista cui si vuol far sudare anche il sangue.”

“Mi dispiace vedere che sprechi il tuo denaro per un manicomio. Denaro che potrebbe servirmi per eseguire delle belle opere e vivere piacevolmente!”
“Ho fretta di lasciare questo posto… Non so se tu abbia intenzione di lasciarmi qui, ma è davvero molto crudele per me!… E dire che si sta così bene a Parigi e vi si deve rinunciare per i grilli che avete in testa… non abbandonarmi qui tutta sola…”
“In questi giorni di festa, penso sempre alla nostra cara mamma. Non l’ho più rivista dal giorno in cui avete preso la funesta decisione di farmi ricoverare in manicomio! Penso al bel ritratto che le feci all’ombra del nostro giardino. I grandi occhi nei quali si leggeva una segreta sofferenza, lo spirito di rassegnazione che emanava dalla sua figura, le mani incrociate sulle ginocchia in un atteggiamento di completa abnegazione: tutto denotava la modestia, il senso del dovere spinto all’eccesso che caratterizzavano la povera mamma. Non ho mai più visto il ritratto (non più di quanto non abbia visto lei stessa!). Se mai ne avessi notizia fammi sapere. Non penso che l’esecrabile personaggio di cui ti parlo sovente [Rodin] abbia l’ardire di attribuirselo, come ha fatto per altre mie opere: sarebbe davvero il colmo, trattandosi del ritratto di mia madre.”

“…condannarmi all’eterna prigione per impedirmi di protestare! Tutto questo nasce, in fondo, dal cervello diabolico di Rodin. Aveva un’idea fissa, ed era che, dopo la sua morte, io spiccassi il volo come artista e diventassi più grande di lui: doveva riuscire a tenermi fra i suoi artigli dopo la morte come in vita. Bisognava che fossi infelice, che lui fosse vivo o no. E’ riuscito in ogni suo intento perché, quanto ad essere infelice, lo sono!… Sono molto seccata per questa… schiavitù.”


Nel 1935, otto anni prima di morire, in una lettera ad Eugène Blot scrisse:

“Sono precipitata in un baratro… Del sogno che fu la mia vita, questo è un inferno”.

In tutte le lettere traspare la disperazione, il forte desiderio di tornare a casa ed anche una certa alternanza di lucidità e follia.




Amanti - Camille Claudel

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